28 Gennaio 2022
Una riflessione, o per meglio dire, una lezione-racconto di Federico Faloppa, (tra le altre cose) Dipartimento di linguaggi e culture, Università di Reading (UK), che ringrazio per averne permesso la condivisione. Così lo introduce:
Per il “Giorno della Memoria”, ieri, ho partecipato a un paio di eventi, a cui tenevo molto.
Nel primo, ho cercato di dialogare con studenti e insegnanti di un liceo per ricostruire insieme a loro definizione, forme ed effetti dei discorsi d’odio.
Nel secondo evento, pubblico, ho provato a fare una cosa diversa. Ho provato a proporre non tanto casistiche, strumenti d’analisi, contro-narrazioni, quanto una narrazione alternativa, attraverso una specie di lezione-racconto dal titolo “Parole che feriscono, parole che curano”.
Ne è venuta fuori una cosa inattesa, forse un po’ spiazzante per chi ha avuto la pazienza di ascoltarmi – che probabilmente si aspettava un mio solito, collaudato intervento su come riconoscere e affrontare i discorsi d’odio – ma che mi ha permesso, chissà, di alzare un po’ la (mia) asticella in tema di riflessione, immaginazione politica, militanza intellettuale. E di condividere una chiave di lettura ‘altra’, con la speranza che potesse essere utile, se non per offrire risposte almeno per porre domande.
PAROLE CHE FERISCONO, PAROLE CHE CURANO
“Un altro infame da giustiziare”, “è necessario il piombo”, “devi morire”.
O ancora “Lo impalerei in pubblica piazza”, “ti veniamo a prendere”, “ti vedremo presto anche a te con il cappio al collo”. C’è perfino chi parla di una “soluzione finale” che consisterebbe nel fare “attentati dislocati nei luoghi di potere, in simultanea”. Sono alcune delle reazioni lette su Telegram negli scorsi mesi, verso chi si esprimeva a favore del vaccino anti-Covid
Queste invece le parole pubblicate sul proprio profilo Facebook (e poi cancellate) dal vicesindaco di Villacidro, piccolo comune della Sardegna: “Ho deciso che comincerò a pregare Iddio affinché tutti quelli che non vogliono vaccinarsi contro il Covid-19 vengano contagiati al più presto, guariscano e si immunizzino; oppure muoiano velocemente, contagiando, prima di morire, gli ottusi come loro, così da accelerare la selezione naturale”.
Due esempi, recenti, di linguaggio violento, aggressivo, d’odio, su un tema molto attuale. Un linguaggio sempre più diffuso, soprattutto a mezzo social. Un linguaggio virale e viralizzato. E non a caso si ricorre da qualche tempo alla metafora “virus dell’odio”, usata perfino dal Presidente della Repubblica proprio il 27 gennaio di due anni fa, quando – a seguito di alcuni episodi di antisemitismo – richiamò il Paese al dovere di “debellare il virus dell’odio e della discriminazione”
D’altronde, una manciata di settimane prima di quel 27 gennaio 2020, questo linguaggio era arrivato anche in prima serata TV. Il 25 novembre 2019 su RAI1 il cantante Tiziano Ferro, ospite della trasmissione Che tempo che fa, recita – guardando fisso la telecamera, perciò tutti noi – il monologo Le parole hanno un peso. Mani in tasca, voce ferma, concentrato, recita una lista di insulti – che qui tuttavia non ripeterò – con tono e volume crescente, per far percepire al pubblico tutta la carica di offesa e violenza che quei termini, da lui subiti negli anni e ora restituiti a voce alta al pubblico, portano con sé. Tiziano Ferro recita quel monologo proprio il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nel 2019 dedicata in particolare al contrasto di espressioni d’odio per motivi di genere e orientamento sessuale. Il pubblico in sala non fiata, durante la lettura. Ma poi esplode in un applauso fragoroso, come per liberarsi da un peso: il peso – appunto – di quelle parole.
Quella catarsi televisiva fu tuttavia breve. E non poteva bastare, non può bastarci. Per un caso di denuncia che sale alla ribalta (come quello) anche grazie alla notorietà di chi se ne è fatto portavoce, moltissimi altri restano nell’ombra. Per una persona che denuncia, molte, troppe persone non possono né vogliono denunciare.
Eppure sono vere e proprie parole d’odio, quelle che in tanti subiscono. Parole che discriminano, incitano al disprezzo, che feriscono profondamente le persone che se le sentono indirizzare. Sono hate words, come vengono chiamate in inglese: parole odiose che provocano dolore perché dispregiative ‘per definizione’. Sono le parole peggiori che si possano usare verso una persona o un gruppo di persone: vogliono esplicitamente offendere, umiliare, far male.
Vi sono però molte altre parole, non necessariamente «spregiative per definizione», che a seconda del contesto possono diventare hate words: possono diventare – citando il linguista Tullio De Mauro – «parole per ferire». Si tratta di una vasta categoria di parole che non sono in sé insulti, né sono riconducibili necessariamente a stereotipi etnici e sociali, o a presunte o reali caratteristiche fisiche, morali, o comportamentali, ma che in alcuni contesti possono essere decisamente offensive. Ce ne sono a decine, nella lingua italiana, e ne cito alcune a caso: barone, bottegaio, finocchio, genovese, ignorante, insetto, lucciola, napoli, pescivendolo, pidocchio, portinaia, rifiuto, scarafaggio, topo, verme… O pensate ancora a signora, quando ci si rivolge con questo termine a una professionista invece di chiamarla con il titolo professionale che le spetterebbe, magari in un contesto in cui i maschi presenti vengono invece appellati automaticamente come… dottori, o professori. Vi ricordate quando il virologo Roberto Burioni, in polemica con Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di macrobiologia clinica e virologia dell’ospedale Sacco di Milano, scrisse sul suo profilo Twitter il 23 febbraio 2020 «temo che la signora del Sacco abbia lavorato troppo nelle ultime ore. Dovrebbe riposarsi»?
È un lessico ricco, quello delle parole per ferire: in continua evoluzione. Nel Barometro dell’odio. Sessismo da tastiera (2020) di Amnesty, che analizzava migliaia di tweet di personaggi politici e di influencer, con i loro commenti, trovammo ad esempio sia termini e locuzioni in fase di consolidamento, sia interessanti… novità. C’erano gli onnipresenti buonista e buonismo (‘buonista del cazzo’, “buonista ipocrita”, ‘buonismo di merda’), gli attempati sinistroide, sinistrorso, gli ormai consolidati radical chic, professore, intellettuale… Proprio all’immagine dell’intellettuale parassita si affiancava prepotentemente anche quella della zecca: un insulto che negli ultimi anni ha trovato un posto di rilievo nel linguaggio d’odio (‘zecca di sinistra’, ‘covo di zecche’, ‘zecca parassita’, ‘zecca rossa’). Quest’ultima espressione in particolare si era talmente affermata da essere diventata nel giro di pochi mesi sinonimo della ‘zecca rossa’ per antonomasia, Carola Rackete, uno dei maggiori bersagli di discorsi d’odio nel 2019.
Zecca non era l’unico insulto derivato dal regno animale. Si trovava anche scimmia, che era impiegato tanto a sinistra quanto a destra come insulto deumanizzante per l’altro, facendo ricorso a un immaginario espressamente razzista. Altrettanto deumanizzante era zoccola, con la sua doppia connotazione negativa (animale + prostituta), così come avviene per vacca. Molte, a proposito di sessismo, le attestazioni di cozza, cessa, vecchia, rifatta: termini utilizzati non solo per insultare, ma anche in quanto attacchi alla persona, per colpire una donna a livello fisico-personale invece che contrastandola sul piano delle idee… Siamo nel campo del body shaming (‘derisione del corpo’), una forma frequentissima di bullismo che prende di mira la persona per caratteristiche fisiche (grassezza, magrezza, altezza, bassezza, acconciatura, forma del bacino e delle natiche…), che vengono stigmatizzate perché considerate – da chi bullizza – non aderenti a un qualche canone estetico.
L’analisi dei dati del Barometro dell’odio. Sessismo da tastiera fornì materiali molto interessanti anche sui toni (‘Cazzo dici’, ‘Ma vada a c….e, va’, ‘Fanatica!’, ‘Aringa secca’, tutti rivolti a politiche) e sulle domande retoriche e i commenti sarcastici con valore antifrastico (‘Ma gli italiani ti pagano lo stipendio per occuparsi di queste cavolate?’, ‘Brava… queste sono le priorità del paese’, ‘Evvai, finalmente delle vere proposte per affrontare i veri problemi d’Italia… !’). Inoltre, si assisteva a una tendenza in crescita in questi anni: molti di quelli che producono parole per ferire, parole d’odio, attribuivano agli altri la causa e la recrudescenza del fenomeno. Gli odiatori, insomma, accusavano le loro vittime di essere loro i veri odiatori: ‘odio inventato da voi’, ‘gli unici che diffondono odio siete voi’, ‘ecco chi diffonde davvero l’odio oggi’, ‘siete voi che odiate l’Italia e gli italiani’, ‘perché così tanto odio contro gli italiani?’.
Paradigmatico, sul piano retorico-testuale, mi era apparso ad esempio un commento del senatore Simone Pillon: “Quanto sono tristi. Che peccato vedere gente senza ideali che porta avanti solo cattiveria, provocazioni, insulti e blasfemie disgustose… Sarebbero loro i combattenti contro l’odio? Guardatevi allo specchio, ragazzi!”. Da parte di chi tentava di girare la frittata del discorso d’odio (‘Noi? Voi, piuttosto!’) si assisteva così alla costruzione di una catena di senso che dal rovesciamento arriva alla negazione del fenomeno, passando da ‘L’odio contro la Segre ve lo siete inventati voi! al: ‘Davvero il problema è l’odio?’, ‘Ma quale odio?!’
Già, quale odio?
Una definizione universale di discorsi d’odio non esiste.
Esistono tentativi di definizione, utili. Ad esempio quello contenuto nelle raccomandazioni della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI) del 2015, in cui il discorso d’odio viene definito come “istigazione, promozione o incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale”.
È questa una definizione importante, anche se – per ragioni di sintesi – non priva di circolarità (definire il discorso d’odio senza definire l’odio), incoerenze (mettere sullo stesso piano molestie, stereotipi negativi, minacce…), liste chiuse (di motivi di discriminazione).
Ci sono anche definizioni più composite, come quella fornita dalla “Piramide dell’odio” della Anti-defamation League, che cercano di mettere in relazione stereotipi con discriminazioni, linguaggio violento con aggressioni fisiche, in questo caso anche attraverso una visualizzazione che aiuti a comprendere i diversi livelli e passaggi.
Ci sono infine, per citare soltanto un altro esempio, definizioni pragmatico-linguistiche che invece che concentrarsi sulle forme di espressione, e sui motivi di discriminazione, fanno riflettere sulle dinamiche di relazione e di potere – nel discorso – tra chi produce discorso d’odio e chi lo subisce, quindi sull’ “ingiustizia discorsiva” che si verrebbe a creare tra maggioranze dominanti e minoranze discriminate.
C’è poi anche chi dice che ogni definizione è comunque ‘per difetto’, che il problema è la salvaguardia della libertà di espressione, non la definizione dei suoi limiti, che… ‘tanto rumore per nulla’: le ingiurie si sono sempre utilizzate, gli insulti sono sempre esistiti, con buona pace dei censori.
Come spiega il linguista Filippo Domaneschi in “insultare gli altri”, gli insulti in effetti sono una risorsa evolutiva, sul piano cognitivo e relazionale: sarebbe proprio grazie agli insulti che abbiamo smesso, come specie, di tirarci pietre e lance. E certo gli insulti e le ingiurie come sempre stati una risorsa narrativa, letteraria, espressiva, da Omero in poi. L’invettiva, o vituperatio, è sempre stata considerata una tecnica sopraffina, dal Plauto delle commedie al Cicerone delle orazioni, dall’Apuleio delle Metamorfosi al Dante della Commedia, dallo Shakespeare dei drammi storici al Rabelais del Gargantua, secondo un «alfabeto convenzionale dell’obbrobrio» – per citare il Borges de L’arte di ingiuriare (1933) – con cui scrittori e poeti di ogni epoca si sono sempre misurati.
Ma è proprio uno scrittore a metterci in guardia circa i limiti – e le regole – di questo ‘alfabeto’: Italo Calvino, nel suo articolo Le parolacce pubblicato sul “Corriere della Sera” nel 1978. Un articolo nel quale Calvino esaltava l’uso popolare di parolacce e ingiurie come riserva di creatività, immaginazione, espressività: come note musicali per creare un determinato effetto nella partitura del discorso. Ma questo uso – scriveva anche Calvino – implica una speciale orchestrazione, altrimenti la forza espressiva si ottunde, si logora, si spreca. E implica consapevolezza del valore di tabù di queste parole, del loro alone “sacrale”. Implica parsimonia e accortezza, se si vuole ottenere l’effetto massimo di significato. E, soprattutto, richiede sensibilità, comprensione del contesto sociale e comunicativo: l’uso di parole oscene e di ingiurie in un discorso pubblico o politico – se non calibrato – diventa infatti sbracamento. “Credo poco alle virtù del parlare francamente – concludeva Calvino – molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali. E solo nella parola che indica uno sforzo di ripensare le cose… si può riconoscere l’avvio di un processo liberatorio generale.
Ecco la chiave: il processo liberatorio passa non dall’omologazione verso il basso, ma attraverso una piena consapevolezza linguistica, attraverso la responsabilità nell’uso delle parole, attraverso la constatazione delle loro potenzialità e dei loro limiti, della loro ricezione e dei loro contesti d’uso. Se guardiamo all’oggi, invece – e siamo tornati al presente – l’impressione non è solo che si insulti fuori da ogni schema, da ogni “alfabeto”, ma che – via social – si usi l’insulto come unica possibilità, come un normale oggetto contundente gettato verso persone che neppure si conoscono, senza arrovellarsi troppo su linguaggio e contesti, evitando gli argomenti per accontentarsi degli slogan. Rifiutando il confronto per ridursi allo scontro. E questo fenomeno è tanto più grave non solo quanto più ferisce qui e ora chi lo subisce – e già questo basterebbe a chiederci di contrastarlo con fermezza, per contrastare la violenza e i traumi che può produrre – ma anche quanto più diventa cifra predominante della comunicazione privata e pubblica: minando sia le relazioni, sia la qualità del dibattito civile, sia la tenuta di un tessuto morale e civile.
A questo punto, permettetemi di spingermi un po’ più in là nelle mie riflessioni. Nel suo saggio Il miracolo vuoto del 1960 George Steiner, studioso di letteratura e filosofo sopravvissuto all’olocausto scrive: “Tutto dimentica, ma non la lingua quando è stata immessa in essa la falsità. Solo la verità più drastica può purificarla”. Steiner si riferiva alla lingua nella Germania postbellica, e si rammaricava che questo processo di verità che lui auspicava non fosse avvenuto: che la lingua tedesca invece fosse ancora caratterizzata dalla dissimulazione, da una voluta dimenticanza. Per lui ciò non aveva a che fare solo con la lingua in sé, ma con il modo in cui essa formava il pensiero e l’azione, con i rapporti tra la lingua e la disonestà politica, la manipolazione del discorso pubblico. Prima di lui, aveva fatto suonare questo campanello d’allarme Heinrich Böll. E, sul rapporto tra verità, lingua, manipolazione, il filologo Victor Klemperer, dalle cui pagine le riflessioni di Steiner avevano preso le mosse.
Classe 1881, ebreo (convertito al protestantesimo) nella Berlino degli anni Trenta e Quaranta, suo malgrado osservatore attento dell’ascesa del nazismo, Klemperer si accorge che, fra le tante forme assunte dal potere – e con piglio sistematico, dal potere nazista – una è proprio la distruzione della lingua o, meglio, l’occupazione della lingua. Gradualmente, ma con un processo che sembra naturale, e inarrestabile – Klemperer osserva – la lingua tedesca subisce come una conversione all’ideologia nazista. È un processo minuzioso, e non dichiarato: un’occupazione lenta che si compie con le parole e non le armi. Le espressioni vengono allontanate dal loro significato originario, costrette ad assumere significati distorto, che tuttavia nel tempo si oggettivizzano, si naturalizzano, dice Klemperer, rendendo possibile la fanaticizzazione dell’opinione pubblica e la deumanizzazione degli ebrei.
Questo tipo di manipolazione è sottile, drammaticamente efficace perché non coinvolge solo il lessico, ma – osserva ancora Klemperer – tutta la struttura del linguaggio: la semantica e la morfologia, le relazioni tra le parole e la sintassi, la pragmatica e la retorica. La stessa ‘funzione’ del linguaggio. Per questo la manipolazione è così minacciosa: un modello così efficace che potrebbe anche ripetersi… Già, la ‘funzione’ del linguaggio. Fatemi fare una digressione, spero utile. Nel romanzo La settima funzione del linguaggio (2015), lo scrittore francese Laurent Binet immagina un complotto che vede al centro Roland Barthes, il famoso semiologo. Il 25 febbraio del 1980, Roland Barthes muore investito da un furgone. Il commissario Jacques Bayard – siamo nel romanzo di Binet – sospetta che non sia stato un incidente, ma che Barthes sia rimasto vittima di un attentato, e per indagare recluta come aiutante Simon Herzog, un giovane assistente universitario. I due scoprono così che Barthes era in possesso di un misterioso documento, nel quale veniva dimostrata l’esistenza di una “settima funzione del linguaggio” (in aggiunta alle sei funzioni teorizzate da Roman Jacobson), ovvero quella della persuasione occulta, in grado – a chi ne avesse compreso i meccanismi – di fornire tutti gli elementi per persuadere occultamente le persone attraverso un uso abilissimo della retorica e dell’oralità.
Nelle finzione del romanzo, a questo documento danno ora la caccia un po’ tutti: i linguisti seguaci di Barthes e i suoi detrattori; lo spionaggio russo, il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e il suo rivale François Mittérand: quello stesso Mittérand che aveva pranzato con Barthes proprio prima dell’incidente, e che è alla ricerca di tutti i mezzi possibili per sconfiggere, alle prossime elezioni presidenziali, Giscard d’Estaing. Al punto da riuscire a impossessarsi dei documenti di Barthes e a tenerli nascosti: per usarli, segretamente, per vincere le elezioni…
Ma non è tanto del Mitterand protagonista della satira di Binet che voglio parlare, quanto invece della figura Roland Barthes. Perché il vero Roland Barthes, durante la sua lezione inaugurale del corso di Semiologia al College de France nel 1977, aveva pronunciato la celebre frase “La lingua è fascista”: «la langue, comme performance de tout langage, n’est ni réactionnaire ni progressiste ; elle est tout simplement: fasciste; car le fascisme, ce n’est pas d’empêcher de dire, c’est d’obliger à dire». È lo spunto che anima la sua lezione, in cui Barthes (si) pone il problema del rapporto non solo tra lingua e potere, ma anche tra semiologia – la scienza dell’interpretazione – e il potere. Già nel 1973 Barthes aveva parlato di discorso “sottomesso al potere”, che lavora all’ombra del potere, e di discorso “fuori dal potere”, opposto al potere. La descrizione di entrambi, tuttavia, si basava su figure dell’intimidazione e e metteva al centro lo scopo di impedire all’altro di parlare e di prendere parola. Da cui il ruolo dell’intellettuale che, secondo Barthes, non è soltanto quello di criticare il senso comune, ma il proprio discorso interpretativo, la propria aderenza o opposizione al discorso del potere.
Qui Barthes – siamo nel 1973 – sembra dialogare idealmente con Pier Paolo Pasolini, con cui peraltro aveva polemizzato intorno al termine fascismo, alla forma più pervasiva di potere. Per Barthes, infatti, il ‘nuovo fascismo’ non era solo quello senza divise, biopolitico, libertino, consumistico, culturalmente genocida, conformistico, alienante descritto da Pasolini. Per Barthes il fascismo aveva due forme, e per questo era estremamente pericoloso: il “fascismo-sistema” e il “fascismo-sostanza”, che non è una circostanziale ma strutturale alla stessa ragione politica. La critica di Pasolini non è quindi sufficiente, sostiene Barthes: il fascismo è in ogni relazione di potere, anche intellettuale, anche nelle mitologie progressiste: ovunque ci siano gruppi “di pressione”, ci sia discorso persuasivo.
Nel 1977, nella lezione al College de France, Barthes si spinge oltre. È lo stesso sistema del linguaggio – sostiene ora Barthes – che aggredisce, ferisce, e si struttura come sistema profondo di potere. La malattia sta già nel codice, non solo nel suo uso o abuso. Non lingua e potere, quindi, ma lingua è potere.
Ma allora se – come sostiene Barthes, il linguaggio è esso stesso malattia – che cosa si può fare? Siamo condannati al silenzio, all’afasia, o al massimo all’urlo straziante, di vuoto e di impotenza comunicativa, con cui esplode il dolore esistenziale del personaggio dell’industriale al termine del film Teorema, per riprendere ancora il Pasolini di fine anni Sessanta? E se invece, attraverso la metafora del linguaggio-malattia, Barthes non avesse voluto suggerire che la cura, l’unica cura risieda proprio nella consapevolezza del linguaggio, e del nostro dovere di esercitarla?
Prima di tentare di rispondere, po’ di suspense: prendiamola alla larga. Di esempi di linguaggio-cura, di linguaggio curativo sono pieni i testi di antropologia, le scritture religiose.
Partiamo dall’antropologia, citando a campione. Nel suo articolo Il potere magico delle parole (1968), l’antropologo indiano Tambiah si soffermava sull’importanza delle parole magiche nei rituali: la recitazione di preghiere, di benedizioni, di incantesimi, di miti, di parole sacre. Ma Levi-Strauss, nell’Efficacia dei simboli (1949), aveva già scritto di guaritori che usavano – e manipolavano – simboli e metafore per verbalizzare le tensioni tra paziente e malattia, per interagire con esse, per condizionarle. Gli sciamani Cuna, ad esempio, aiutavano a le donne partorire accompagnando le doglie e il parto con canti che inserivano l’esperienza delle partorienti in una ampia cosmologia, e ne lenivano le sofferenze con metafore e analogie. E ancora: già Malinowski nel 1935 aveva capito che nelle comunità tradizionali le parole sacre non erano solo un veicolo per esprimere idee ma potevano avere effetti e conseguenze pratiche. Il linguaggio era azione: poteva avere un potere sull’ambiente, non solo descrivendolo ma modificandolo. Nominare una cosa era anche controllarla, empiricamente. Così una malattia, così le zone del corpo che ne erano affette. La parola dello sciamano non era solo metafora della malattia. Interagiva con essa, anzi agiva direttamente su di essa.
Poi ci sono le religioni, da sempre ricche di esempi di parola-cura. Nell’Islam, ad esempio, il canto ripetuto dei nomi di Allah si effettua per pratiche rituali di guarigione. La parola salim che evoca benessere, integrità, pace, sicurezza, ha la stessa radice di islam, SLM, pacificare, salvare.
O pensiamo al Salmo biblico 17: “Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li liberò dalle loro tribolazioni. Mandò la sua parola e li guarì, li salvò dalla morte”. Ancora: nelle guarigioni collettive tipiche delle chiese pentecostali la parola curatrice ha una forte valenza sociale. La cura religiosa ha una dimensione pubblica, diventa una sorta di spettacolo, con canti, musiche, danze, simbolismi cromatici, posture particolari dei corpi. La terapia si svolge come uno spettacolo collettivo a cui tutti sono invitati a partecipare perché la malattia del singolo rimanda a un malessere più generale. Il guaritore, attraverso la sua lotta visibile e pubblica con le forze maligne provocatrici del disagio fisico del paziente che cerca di curare, simboleggia, per gli spettatori, un male collettivo invisibile e più insidioso, una sorta di virus che occorre in qualche modo materializzare, per poterlo più facilmente espellere dal corpo del malato, preservando dal contagio il corpo sociale.
Ma c’è anche una parola-cura laica, altrettanto nota, altrettanto radicata. È la parola letteraria che allontana la morte: la parola di Sherazad nelle Mille e una notte, le parole della brigata di giovani nel Decameron. Sono molte le pagine di Tristan Shandy in cui il protagonista scappa letteralmente dalla morte grazie all’espandersi delle storie che lo riguardano, a continue sorprendenti digressioni. È – fatemi alleggerire un po’ il mio racconto – la storia raccontata da Gianni Rodari in C’era due volte il barone Lamberto.
Ve lo ricordate, il barone Lamberto di Rodari? Siamo sull’Isola di San Giulio, Lago d’Orta, in Piemonte. Un vecchio e ricchissimo barone di nome Lamberto – fiaccato da 24 diverse patologie – su consiglio di un santone incontrato per caso in Egitto decide di assumere 6 persone che, a turno, ripetano il suo nome: le loro voci saranno diffuse per tutta la villa del barone da piccoli altoparlanti: “Lamberto, Lamberto, Lamberto…”
Dopo alcune settimane di questa cantilena, il barone comincia miracolosamente a ringiovanire: gli rispuntano i capelli, la pelle ridiventa liscia, delle 24 patologie non sembra esserci più l’ombra. Di punto in bianco, si ritrova in un corpo di un quarantenne, spavaldo, energico, allenato.
La storia si complica – ricorderete – quando una banda di malviventi rapisce Lamberto per chiederne il riscatto. E soprattutto quando il nipote Ottavio – noto perdigiorno pieno di debiti – decide di uccidere lo zio per prenderne l’eredità. Ottavio da quindi del sonnifero alle 6 persone che ripetono il nome del barone tenendolo in vita. Non sentendo più il proprio nome, il barone muore, di colpo, di notte.
Essendo di Rodari però la storia non finisce qui. Dileguatisi i rapitori, che per un morto non possono chiedere il riscatto, Anselmo – il fedele maggiordomo del barone – organizza solenni funerali sull’isola, per onorare il barone Lamberto. E qui avviene una specie di miracolo. Il continuo vociare delle persone accorse al funerale, che nel ricordare il barone nel ripetono continuamente il nome, fa ritornare in vita Lamberto. Le 6 persone assunte, ancora sull’isola, iniziano quindi a dire “Lamberto” a ritmo serrato, facendo sì che il percorso di vita del redivivo nobile si capovolga, con il barone che torna ad essere un bambino di tredici anni.
Gianni Rodari lascia finale e morale della storia aperti, come da grande narratore era uso fare. Ma certo non si può negare che questo suo breve romanzo sia un esempio, lampante, del potere curativo della parola, o meglio, del potere curativo del ‘nome’. Che, in bocca a una comunità, diventa cura, individuale e – attraverso il racconto – colletiva.
Quale altra pratica della cura attraverso la parola, conosciamo?
Ah sì, certamente: la psicoterapia, nel rapporto terapeuta-paziente. Ma di questa non parlo, per ora. Anche perché vorrei ora concentrarmi non solo sul rapporti di uno a uno, nella cura attraverso le parole. Per affrontare la malattia (del linguaggio), vorrei pian piano spostare la mia attenzione dalle relazioni di potere che il linguaggio esercita, al potere che noi, come comunità, possiamo esercitare sul linguaggio stesso…
Interessante è, in questo senso, dare un’occhiata alla stessa terminologia con cui ci riferiamo alla malattia. In italiano malattia ha uno spettro semantico ampio: nel nostro linguaggio di tutti i giorni può significare tanto uno stato patologico, quanto la sua percezione, quanto le sue conseguenze sul piano fisico e sociale. In inglese invece – per fare un esempio tratto dalla mia lingua di lavoro – dovremmo scegliere tra illness, disease, e sickness.
Illness è più propriamente l’esperienza soggettiva del malessere, lo stato di sofferenza così come viene percepito dal sofferente stesso.
Disease è invece il termine biomedico, la condizione patologica oggettiva.
Sickness è, d’altronde, il significato sociale dello star male: potremmo dire che è il ruolo sociale del malato formalizzato nell’atto della diagnosi.
Questa differenza tra esperienza soggettiva e condizione oggettiva è riflessa, a pensarci bene, anche nella differenza tra ‘segno’ – qualunque manifestazione di malattia che può essere accertata da un medico attraverso l’esame del corpo del soggetto malato – e ‘sintomo’, ovvero la percezione soggettiva della malattia, registrata attraverso la narrazione di chi ne è afflitto.
Da un punto di vista antropologico, il sintomo è un piccolo racconto costruito dal paziente a partire dalla propria esperienza di vita. Un racconto ricco di riferimenti simbolici e socio-culturali, collocati in un specifico contesto socio-politico.
Proprio per cogliere la complessità della trasformazione corporea prodotta dall’esperienza del malessere e la produzione di significati che i soggetti sofferenti attivano attraverso il linguaggio, una corrente di studi dell’antropologia medica statunitense – nota come Scuola di Harvard – ha sperimentato una metodologia di studio delle forme narrative dei racconti prodotti dei sofferenti. Introdotto dall’antropologo e psichiatra Kleinman nei primi anni Settanta, questo approccio ha avuto come obiettivo quello di sottrarre la definizione della malattia a un codice biologico oggettivo e naturale, ponendo invece al centro la dimensione culturale dell’esperienza del malessere.
Il malessere, insomma, opererebbe una modificazione non solo del corpo, e della sua percezione, ma anche dell’habitat e del modo stesso di stare al mondo delle persone che soffrono, ed evidenzierebbe l’urgenza di immaginare e rappresentare la propria malattia in forme comunicabili e socialmente condivisibili.
Gli antropologi della scuola di Harvard hanno così utilizzato strumenti narratologici per analizzare e interpretare i racconti, e ricostruire le storie di malattia in modo da portare alla luce un’esperienza del malessere altrimenti confinata nel mondo delle emozioni intime, inesprimibili, laddove la malattia invece chiede sempre al soggetto di usare tutti gli strumenti di cui dispone per dare significato alla propria esperienza.
Tuttavia il racconto dell’esperienza del malessere non si radica unicamente nel vissuto individuale della malattia, ma si configura come un resoconto storico culturale di una serie di emozioni, credenze, scelte, che vengono elaborate dal soggetto sofferente per rappresentare l’evento della malattia e la sua incidenza nella propria biografia. La narrazione mette quindi in gioco non solo la dimensione individuale del malessere, ma anche la produzione di significati culturali, di relazioni sociali, di rapporti economico-politici.
Questo approccio alla illness richiede però non solo uno sguardo clinico, ma anche la messa in discussione di processi di costruzione storica dello stesso concetto di malattia, dello stesso discorso medico. E richiama alla necessità di rivolgere una maggiore attenzione ai processi di costituzione della disease – cioè le motivazioni storiche culturali e socio politiche che conducono alla costruzione delle categorie biomediche della malattia – e alla sickness, intesa come processo di socializzazione della malattia.
Ogni atto terapeutico è visto così come un confronto di poteri che si gioca nel campo non solo medico ma anche socio-politico: nei rapporti di forza, nella socializzazione del malessere, avrebbe detto Ivan Illich. E il rapporto medico paziente è sempre incastrato in un campo di relazioni più ampio: le politiche sanitarie di uno Stato, ad esempio, o i diritti e le sofferenze dei famigliari, della comunità. O i conflitti sociali e politici nel caso di malattie derivanti dalle condizioni di lavoro, come la silicosi. Ecco, nel caso della silicosi, infatti, le relazioni sociali producono non soltanto la ‘malattia del minatore’ – l’illness – ma determinano anche la categoria biomedica – la disease – che non può essere oggettiva perché riflette rapporti di forza e di potere dentro i quali le diagnosi vengono effettuate, rimandate, taciute.
Perché vi racconto tutto questo?
Prendiamo le coppie di termini salute – malattia, o malattia – cura.
Se le dinamiche di potere che regolano i processi di salute e malattia restano nascoste, allora la dialettica salute – malattia viene oggettivata come un’opposizione naturale; se invece si illumina questo meccanismo, e si esplorano le interazioni fra benessere fisico ed economia politica, allora la salute potrà figurare come la possibilità o la necessità di accesso alle risorse materiali e immateriali che garantiscono la vita, e la malattia potrà rivelarsi come una condizione di ineguaglianza.
Secondo Didier Fassin, la salute sarebbe il prodotto in continuo cambiamento delle lotte che i diversi attori sociali mettono in atto, contendendosi e negoziando il significato stesso della nozione. Nella gestione politica della salute, lo stato svolgerebbe dunque un ruolo centrale nella ridefinizione del concetto di salute stessa, e nell’accesso alle risorse che garantiscono il benessere.
In una conferenza sulla storia della medicina tenuta presso l’istituto di medicina sociale di Rio de Janeiro nell’ottobre del 1974, Michel Foucault collocava in un decennio cruciale per l’Europa occidentale, fra il 1940 e il 1950, la genesi di una nuova attenzione intellettuale, economica e politica alla salute: la nascita cioè di un diritto alla salute inteso come nuovo diritto che regola il rapporto fra l’individuo e lo stato. Proprio in quel periodo nacque il cosiddetto ‘Piano Beveridge’ che nella Gran Bretagna post-bellica e laburista segnò una svolta: lo stato si deve far carico della salute dei cittadini non solo perché loro sono forza lavoro e produttiva, ma perché sono titolari del diritto di mantenere il proprio corpo in buona salute. Semplificando un po’: il concetto di Stato al servizio dell’individuo in buona salute si sostituisce al concetto dell’individuo in buona salute al servizio dello Stato. Col Piano Beveridge, nasce il diritto ad interrompere il lavoro per motivi di salute: e le spese derivanti dall’interruzione del lavoro per motivi di salute non sono più a carico del singolo, ma a carico dello Stato. Salute, corpo, e malattia diventano così cruciale terreno di rivendicazione politica in tutta Europa, e il tema della lotta politica per la salute diventa centrale nel dibattito democratico e anche in quella elettorale.
Non solo: grazie a questa socializzazione della salute e della malattia, la povertà intesa come debolezza sociale ed economica è vista non come una colpa individuale ma come una mancanza di salute (non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità propone una nozione di salute in cui il concetto di sicurezza sociale rientra come tratto saliente). E l’esperienza individuale della malattia diventa processo sociale dove le diseguaglianze strutturali giocano un ruolo fondamentale: una relazione che si può cogliere mettendosi in ascolto delle esperienze e dei bisogni complessivi delle persone, non solo del loro stato patologico.
Due anni fa, in alcuni miei interventi per il portale Lingua italiana di Treccani dedicati ai rapporti tra linguaggio e pandemia, all’interno di una rubrica che intitolammo non a caso “La cura della parola”, ponevo al centro delle mie osservazioni proprio l’ascolto, come una terapia sociale in risposta agli ostacoli comunicativi (e materiali) causati dalla pandemia.
Come ci spiega Umberto Curi nel suo saggio Le parole della cura (2017), il significato originario del termine greco theràpeia è ‘servizio’. Dunque è letteralmente servitore colui che svolge la funzione del theràpto. Nell’Iliade Patroclo è presentato come ‘terapeuta’ di Achille. È appunto al suo servizio, perché l’assiste agendo come suo attendente. La terapia implica obbedienza: non si può assolvere i compiti previsti per il terapeuta se non ponendosi totalmente al servizio del proprio assistito, e dunque prestandogli obbedienza. Ma obbedire deriva da ob-audire, ci ricorda Curi, ovvero dal porsi in ascolto: obbediente è colui che si fa terapeuta di un altro ponendosi al suo servizio ascoltandolo. Per Patroclo il posto al servizio di Achille è il risultato di una libera scelta, esente da ogni forma di coercizione o subalternità. Tuttavia Patroclo non è terapeuta di Achille perché lo cura, ma perché si mette al suo servizio. Patroclo è l’incarnazione genuina della figura del terapeuta di Achille non perché fa qualcosa su di lui, ma perché si dispone ad ob-audirlo.
Questa ampiezza semantica si ritrova anche nel termine latino che corrisponde quasi letteralmente alla parola greca terapeuta, ovvero cura, che infatti starebbe a indicare anzitutto la sollecitudine, la premura, l’interesse per qualcuno o anche per qualcosa senza che necessariamente questa disposizione debba concretizzarsi in un atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa stare in pensiero, prendere a cuore, essere preoccupati per lui o per lei.
Questa breve ricognizione etimologica, mi pare, lascia emergere uno snodo importante alle origini della tradizione culturale cosiddetta ‘occidentale’. Le parole che designano la cura alludono a una condizione soggettiva prima che oggettiva: quella di chi si preoccupa, e dunque si pone al servizio, prima che a una tecnica medica. Ciò che i termini antichi evidenziano non è tanto la messa in campo di rimedi specifici da parte del medico, ma la presenza di una sua preoccupazione per la persona da assistere. Per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico è non a caso mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui o colei che gli è stato/a affidato/a, indipendentemente dal fatto che questa attitudine si traduca nella somministrazione di farmaci, o in altre pratiche terapeutiche. L’idea di fondo, insomma, è che il servizio più importante che possiamo rendere agli altri e quello di preoccuparci per loro avendo a cuore la loro condizione, provando interesse per ciò che a loro accade senza far coincidere questo interesse l’adesione a un protocollo, a una prassi, a una mera questione tecnica.
Da qui la centralità dell’ascolto, del mettersi in ascolto. Ma anche del dare voce all’altro. Dargliela, intendo, nella sua lingua, nel suo codice. Per rendere efficace la cura, oltre che uno spazio civile, una cultura, e un sistema di prassi è necessario insomma co-abitare una relazione e una lingua. Imporre la relazione, o negare la lingua all’altro può infatti produrre dolore: accelerare la malattia senza peraltro interrogarsi sull’essenza della cura.
Nel suo libro the Guardando oltre le montagne (2014), la poetessa curda alevita di origine turca Bejan Matur annota i discorsi dei curdi e delle curde che si sono uniti alla clandestinità. Il divieto di usare la lingua madre riemerge sempre nei loro racconti di vita come momento doloroso, come malattia. Da tempo la lingua in Turchia è una controversa questione politica: nel 1928, con la riforma linguistica, Mustafa Kemal Ataturk abolì l’alfabeto arabo che era stato usato nel regno turco ottomano e introdusse le lettere latine dall’oggi al domani. Migliaia di cittadini divennero così ‘analfabeti’ dal giorno alla notte. E ancora oggi molti giovani turchi non sanno leggere in originale gli scritti dei loro antenati.
Far riappropriare della propria lingua, quindi, per essere terapeuti. Ma anche riappropriarsi, pienamente, della propria lingua – anche quella del dolore – per ri-abitarla. È la lezione che riceviamo, ad esempio, da Paul Celan, poeta romeno la cui famiglia fu uccisa nei campi di sterminio nazisti. Il quale, nella sua produzione poetica, si confronta anche con il senso di scrivere in tedesco, la lingua dei carnefici, e sul dolore di non poter dire, e significare, la perdita:
Dialoghi con cortecce d’albero. Tu
scorzati, vieni,
scorzami dalla mia parola.
Tardi com’è, così
nudi e vicini alla lama
vogliamo essere.
Scorzami della mia parola… Nudi e vicini alla lama vogliamo essere… Un senso di impotenza ma anche di drammatica sofferta resistenza, a causa della parola e per mezzo della parola. Perché una sola cosa rimane al sicuro dalla perdita, scrive Celan: la lingua. Ma è una lingua spesso priva di risposte, piena di terrificanti strazi e silenzi, memore di azioni criminali, lacunosa. Eppure dura, tagliente. Capace di far riaffiorare l’abisso. Anzi, di far riaffiorare, scarnificandosi, chi la usa dall’abisso. La lingua tedesca è quella del genocidio, dice Celan, ma è un posto di cui non possiamo fare a meno.
Non abbiamo altra scelta che abitare la lingua, anzi le lingue, dolorosamente insieme, per vedere la malattia fino in fondo. E, forse, per tentare di trovare una cura. Era così ieri, è così oggi per i discorsi d’odio: sono l’abisso, ma sono anche la spinta che ci spinge a una cura – attraverso l’ascolto, il dare voce, la necessità di re-imparare a co-abitare il linguaggio, la lingua – che ci impone di riemergere dall’abisso.
Vorrei finire questo mio racconto sulle parole che feriscono e le parole che curano con alcune frasi di Tony Judt, prese a prestito – oggi, Giorno della Memoria – dal suo libro Lo chalet della memoria, pubblicato nel 2010.
Storico di fama mondiale per i suoi lavori sull’Europa del secondo dopoguerra, l’Europa che faceva i conti con i suoi drammi recenti per tentare di ritrovare un barlume di futuro, nel 2006 gli fu diagnosticata una sclerosi laterale amiotrofica che nel giro di 4 anni lo paralizzò e lo uccise. Durante il decorso della sua malattia, scrisse una serie di articoli e brevi memoir. Uno di questi era dedicato proprio alla ‘parola’. Leggiamone un brano.
“In balia di una malattia neurologica – scrive Judt – sto rapidamente perdendo il controllo delle parole, anche se sono rimaste il mio unico tramite col mondo. Si formano ancora con disciplina impeccabile e varietà intatta nel silenzio dei miei pensieri. Dall’interno il panorama è sempre ricco, ma non riesco più a pronunciarle con facilità: dalla mia bocca escono suoni di vocali e consonanti sibilanti informi e incomprensibili perfino al mio più stretto collaboratore. Il muscolo vocale da sessant’anni mio affidabile alter ego sta cedendo. Comunicazione espressione affermazione: ora sono queste le mie risorse più deboli, e presto non sarò più in grado di tradurre l’esistenza in pensiero e pensiero in parole e le parole in comunicazione, e sarò confinato al paesaggio retorico delle mie riflessioni interiori. Oggi sono più comprensivo nei confronti di chi è costretto al silenzio, ma continuo a disprezzare il linguaggio confuso, non più libero di praticarla Apprezzo più che mai l’importanza della comunicazione nella vita pubblica: non solo il mezzo che ci consente di vivere insieme, ma il senso profondo di quel vivere insieme. L’abbondanza di parole in cui sono cresciuto costituiva uno spazio pubblico in sé, e quello che manca oggi sono proprio spazi pubblici ben tenuti. Se le parole cadono in rovina che cosa prenderà il loro posto? Sono tutto quello che abbiamo”.
Non lo trovate potentissimo, questo brano? Lo storico, l’uomo che mentre perde l’uso della sua parola, accerchiato dalla malattia, riscopre l’importanza della parola collettiva nello spazio pubblico come unica cura, come unico rimedio. E lo fa passando dall’io, malato, al ‘noi’ che gli sopravviverà.
Sono tutto quello che abbiamo, le parole: usa il plurale, Tony Judt, come ultima forma di speranza contro la malattia, come ultima forma di resistenza.
E ci invita a cercare una risposta a quella nostra domanda, ricordate?: se il linguaggio è malattia, può anche essere la cura?
Sì, forse, mi viene da rispondere, se le parole della cura partono dalla cura collettiva delle parole. Se ci facciamo comunità di terapeuti che si pone all’ascolto, che si fa e accoglie voce, che re-impara a co-abitare – dopo la cesura pandemica – spazi di relazione sociale e linguistica, regole condivise, codici e linguaggi.
Perché noi siamo il linguaggio, noi siamo le parole: e se le parole cadono in rovina, che cosa prenderà il loro posto?
LA LIBRAIA
Malvina Cagna ha aperto la Trebisonda nel 2011.
Prima di fare la libraia si è occupata di ricerca, progettazione e organizzazione dello sviluppo locale.
Dal 2000 al 2003 ha diretto il festival San Salvario Mon Amour.
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